Mediazione riservata, ma non troppo.

Nella mediazione è proprio tutto riservato?

Il documento che non contiene alcuna informazione o dichiarazione resa dalle parti della mediazione è producibile nel giudizio successivo alla mediazione fallita.

Lo afferma un consolidato orientamento giurisprudenziale (Tribunale di Roma Ordinanza del 17/03/2014 Giudice Dott. Massimo Moriconi, poi condiviso ex plurimis da Tribunale di Parma – ordinanza del 13/03/2015; Tribunale di Roma- ordinanza del 09/04/2016) che ha chiarito la portata e la natura dell’obbligo di riservatezza in mediazione dovendo decidere sulla producibilità di una consulenza tecnica svolta in mediazione ed ha, pertanto, analizzato “il principio di riservatezza che ispira la procedura di mediazione di cui all’art.3 del D.Lgs. 28/2010”. Riferisce il giudicante che “tale principio trova la sua scaturigine e ragione d’essere nella necessità di favorire quanto più possibile l’instaurazione fra le parti presenti nel procedimento di mediazione, di un clima di libero, leale e sincero confronto e discussione, nelle sessioni congiunte e in quelle separate con il mediatore, tale che consenta ad ognuna di aprirsi senza remore e timori, esponendo fino in fondo il rispettivo punto di vista, con le relative aspettative e richieste, con ciò che vi è in esse di rinunciabile ed al contrario indefettibile. (…) Non si può e non si deve, però, neppure enfatizzare oltre ogni limite il principio di riservatezza, rischiando di andare oltre quello che il legislatore ha stabilito. Riservatezza ad ogni costo e sempre non significa infatti agevolare con sicurezza il successo della mediazione ed il suo raggiungimento dell’accordo”. Il tribunale ha statuito che: “Ritiene il Giudice, alla luce delle precedenti considerazioni ed in un’ottica di equilibrato contemperamento fra l’esigenza, nei limiti in cui è normata, di riservatezza che ispira il procedimento di mediazione e quella di economicità e utilità delle attività che si compiono nel corso ed all’interno di tale procedimento, di poter dichiarare legittima ed ammissibile la produzione nella causa alla quale pertiene la mediazione, dell’elaborato del consulente esterno (….) Invero i divieti previsti dalla legge come supra ricordati “hanno per oggetto esclusivamente le dichiarazioni delle parti (di cui le informazioni – di cui pleonisticamente parla la legge – sono solo uno dei possibili contenuti”).Ciò in quanto l’attività del consulente esterno in mediazione, all’esito degli accertamenti che compie, (che non potranno consistere nel raccogliere e riportare dichiarazioni delle parti o informazioni provenienti dalle stesse), si estrinseca (ed esaurisce) nella motivata esposizione dei risultati dei suoi accertamenti tecnico specialistici. Infatti, prosegue il tribunale di Roma “Nessuna norma del D.Lgs.28/2010 fa divieto dell’utilizzo nella causa della relazione dell’esperto, fermo restando il generale obbligo di riservatezza anche del consulente, come di tutti gli altri soggetti che intervengono nel procedimento. Un esplicita conferma di quanto precede si ricava dall’ultima parte dell’art.10, I comma, dec.cit. che fa salvo il consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Così confermandosi il consenso per l’utilizzazione in ambito diverso dal procedimento di mediazione all’interno del quale (le dichiarazioni) sono emerse è necessario solo per le dichiarazioni delle parti. Un’ultima considerazione riguarda il presunto divieto derivante dal generale principio di riservatezza che ispira il procedimento di mediazione. Si tratta, a ben vedere, di un’affermazione che prova troppo. L’art.3 del D.Lgs.28/2010 non predica affatto una generale riservatezza del procedimento. Piuttosto prevede espressamente che il regolamento (dell’organismo n.d.r.) deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento ai sensi dell’art.9. Norma, l’art.9, che immancabilmente riferisce e limita testualmente l’obbligo di riservatezza alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo.

Può pertanto, stabilirsi un primo punto fermo: quello della selettività del divieto che riguarda esclusivamente le dichiarazioni e le informazioni che una parte abbia fornito (a chicchessia dei soggetti presenti nel procedimento di mediazione e quindi, per ipotesi, anche del consulente). (….) Ne consegue che il giudice potrà utilizzare tale relazione secondo scienza e coscienza, con prudenza, secondo le circostanze e le prospettazioni, istanze e rilievi delle parti, meno frequentemente per fondarvi la sentenza, più spesso per trarne argomenti ed elementi utili di formazione del suo giudizio”.

Sul punto si evidenzia che il sopra citato orientamento giurisprudenziale ha ammesso, come si diceva, la producibilità in giudizio della C.T.M. anche in mancanza di assenso preventivo di entrambe le parti inquadrandola tra “le prove atipiche, purché siano rispettati alcuni fondamentali principi dell’ordinamento stesso (e fra questi principalmente quello del contraddittorio)” (Tribunale di Roma ordinanza del 04/04/2016; ex plurimis Tribunale di Roma ordinanza del 17/03/2014; Tribunale di Parma ordinanza del 13/03/2015; Tribunale di Roma ordinanza del 09/04/2016).

Del medesimo avviso è risultata, altresì, una recente delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna del 13/6/2018 resa in seguito ad una interrogazione svolta da una avvocatessa iscritta (reperibile al link : https://www.bolognaforense.net/2018/07/estratto-verbale-adunanza-del-13-6-2018/): il consiglio bolognese ha dato atto del succitato orientamento giurisprudenziale delimitando l’obbligo di riservatezza in mediazione in maniera conforme ad esso.

Trova conferma, pertanto, l’assunto in virtù del quale il dovere di riservatezza riguardi esclusivamente le informazioni e le dichiarazioni inerenti le parti partecipanti alla procedura di mediazione, siano esse rese direttamente ovvero attraverso un terzo esterno interpellato.